Il 12 novembre del 1448, con atto stipulato a Girgenti
presso il notaio Salvatore Piazza, il milite (grado iniziale dell'aristocrazia
militare) Antonio Palmeri che, ormai vecchio e malato, era subentrato nello
stesso anno al padre Fulco nel governo del feudo canicattinese ma era privo di
prole, decise di vendere, al prezzo di 250 onze, la baronia ad Andrea De Crescenzio, che aveva
sposato una nipote di Fulco, figlia di Filippa e Tommaso Crispo.
Andrea, anche per sottrarsi alla dipendenza della famiglia
della moglie che abitava a Naro, scelse di risiedere nel Castello di Canicattì
che ampliò e rese più funzionale.
Il 3 febbraio 1467 ottenne dal viceré Lope Ximenes, marchese
di Urrea, in nome e per conto del re Giovanni d'Aragona, la facoltà di ampliare
i confini del suo territorio e cioè "casalisfinesdilatandifacultas", unitamente
alla "licentia populandi" e cioè alla
possibilità di accogliervi abitanti provenienti da altri centri. A Canicattì
giunsero molti abitanti dei paesi vicini, in particolare di Naro, e circa
trecento taorminesi.
Sotto il governo di Andrea De Crescenzio il territorio di
Canicattì raggiunse la superficie di circa 800 ettari corrispondenti a 200
salme.
Nel 1485, alla morte di Andrea, divenne signore di Canicattì
il figlio Giovanni.
Con la morte di Giovanni, nel 1507, si estinse la dinastia,
breve seppur prestigiosa, dei De
Crescenzio.
Giovanni lasciò soltanto due figlie: Ramondetta e Bianca.
Ramondetta, qualche anno prima della morte del padre, aveva sposato Francesco
Calogero Bonanno, barone di Rafforosso, figlio di Cesare, nobile di
Caltagirone.
Francesco Calogero Bonanno, già indicato come erede dal
suocero, iniziò a Canicattì la dinastia plurisecolare dei Bonanno, pur
continuando a vivere a Caltagirone. Da Francesco Calogero e Ramondetta nacque
Filippo.
Francesco Calogero morì giovanissimo, nel 1511, e la vedova
Ramondetta si trasferì con il figlio nel Castello di Canicattì. Filippo Bonanno
ordinò e ampliò l'armeria del Castello ove erano custodite le armi sottratte
dai normanni agli sconfitti saraceni.
Morta la madre Ramondetta, Filippo ottenne l'investitura
della baronia il 2 giugno del 1551. Filippo a Siracusa sposò Eleonora
Platamone, figlia di Pietro, cavaliere di quella città. Dal matrimonio nacque
Giovanni Battista che, nel 1555, alla morte del padre, ereditò la baronia di
Canicattì.
Giovanni Battista Bonanno Platamone, pur continuando ad
abitare a Siracusa, amministrò
saggiamente Canicattì tramite il "governatore" Antonio Calmieri. Curò in
particolare l'agricoltura e ottenne dal viceré Giovanni della Cerda, duca di
Medinaceli, l'autorizzazione ad aprire, in aggiunta all'unico già esistente,
quattro nuovi molini e all'uso delle acque necessarie a farli funzionare. La
popolazione di Canicattì nel 1583 raggiunse quota 2.494.
A seguito della riforma amministrativa del 1583 che divideva
la Sicilia in 44 "comarche", il barone di Canicattì ebbe l'obbligo di disporre
per il sovrano, tramite il governatore militare della Comarca di Naro da cui
dipendeva, tre cavalieri e diciassette fanti.
Giovanni Battista Bonanno Platamone sposò Isabella La Rocca
da cui ebbe quattro figli: Filippo, Pietro, Leonora e Maria. Nel 1581, alla
morte di Isabella, sposò Giovanna Gioeni, vedova di Fabrizio Romano, barone di
Montalbano, e da essa ebbe tre figli: Giuseppe, Lucio e Orazio. Morì a Siracusa
nel 1597.
Durante le baronie di Filippo Bonanno e Giovanni Battista
Bonanno Platamone furono costruite a Canicattì due importanti chiese: quella di
San Francesco con il convento dei frati minori conventuali e quella del Carmine
con il convento dei frati carmelitani dell'Antica Osservanza. La costruzione
delle due chiese diede impulso allo sviluppo di due nuovi quartieri.
Alla morte di Giovanni Battista Bonanno, nel 1597,
succedette il figlio Filippo II Bonanno La Rocca che sposò Antonia Romano
Colonna, duchessa di Montalbano da cui ebbe dieci figli. Grazie a questo
matrimonio i baroni di Canicattì diventavano anche duchi di Montalbano. Anche
Filippo II preferì abitare a Siracusa ove ricopriva importanti incarichi.
Sotto la baronia di Filippo II Bonanno La Rocca Canicattì
si arricchì, fra il 1609 e il 1612, di
una delle sue chiese più belle, quella di San Domenico con l'attiguo convento
dei padri predicatori o domenicani.
L'otto giugno del 1619 è una data assai importante nella
storia di Canicattì: a seguito della morte del padre Filippo, ottiene
l'investitura di barone di Canicattì Giacomo Bonanno Colonna che darà
particolare lustro alla città nella vita economica, nell'assetto urbanistico e
nella realizzazione di chiese e monumenti di particolare pregio artistico.
Giacomo sposò Antonia Balsamo, figlia ed erede del marchese
di Limina e principe di Roccafiorita e da essa ebbe otto figli. Alla morte
della madre, ereditiera dello Stato di Montalbano, Giacomo ne fu creato duca
con "privilegio" dl re Filippo III di Spagna, promulgato a Madrid l'otto agosto
del 1623.
Giacomo Bonanno Colonna, al fine di potenziare e abbellire
le tre zone di maggiore sviluppo della città, nel 1633 decise di innalzare in
esse tre pregevoli e monumentali
fontane: a Borgalino nell'attuale piazza Roma; nell'attuale piazza IV Novembre
e all'inizio della strada per Naro.
Ricordiamo altre importanti opere legate alla figura di
Giacomo Bonanno: la costruzione della chiesa dello Spirito Santo e
l'istituzione, nell'attuale corso Umberto, dell'Ospedale dei Santi Filippo e
Giacomo (protettori della famiglia Bonanno Colonna).
Alla morte di Giacomo Bonanno Colonna, avvenuta nel 1636, il
primogenito Filippo Bonanno Balsamo ereditò tutti gli "stati" dei genitori.
Era però appena tredicenne e per questo fu affidato allo zio Pietro Bonanno Balsamo (secondogenito di Giacomo) che ne divenne tutore fino al 1661. Il 15
settembre del 1661 a Giacomo II Bonanno Crisafi furono riconosciuti
ufficialmente i diritti feudali e da allora governò in prima persona.
Breve il suo governo su Canicattì, appena cinque anni, ma
assai importante per due iniziative: la costruzione del monastero benedettino
della Badia, iniziata nel 1663, e l'istituzione della "zona franca" in
occasione della festa e della fiera di San Diego.
A Giacomo II Bonanno Crisafi, nel 1666, subentrò il figlio
Filippo III Bonanno Marini Graffeo. Questi sposò la cugina Rosalia Bosco,
figlia di Francesco, principe di Cattolica, barone di Siculiana e prefetto
della milizia siciliana, e di Tommasa Gomez de Sandoval, sorella si Rodrigo
duca de Infantados, viceré di Sicilia. Sotto Filippo III a Canicattì si
verificò un'infezione difterica: nel mese di aprile i morti furono 330 (85
oltre i venti anni) e 240 a maggio (72 oltre i venti anni).
Filippo III trascurò del tutto il feudo di Canicattì e ne
affidò la cura a un castellano che, nel 1680, costruì un piccolo carcere
(quattro stanzette per i detenuti maschi
ed una per le femmine, oltre ad un piccolo cortile), completamente isolato, là
dove oggi sorge la chiesa del Purgatorio. Il vano destinato alle donne detto
"della Catena", fronteggiava con le finestre ferrate il convento del Carmine o
dell'Annunziata. Per mantenersi, i carcerati erano autorizzati ad intessere e
vendere "coffe di corina". Non c'era infermeria e quindi, in caso di malattia,
i detenuti potevano, su cauzione o sotto sorveglianza, rientrare
temporaneamente nelle proprie abitazioni.
Il 5 settembre del 1711 a Filippo III successe nella
signoria di Canicattì il figlio Francesco Bonanno Del Bosco. Questi faceva
parte dei Grandi di Spagna ed era Gentiluomo di Camera del re Vittorio Amedeo
di Savoia e del re Carlo III di Spagna.
La baronia di Francesco Bonanno è ricordata soprattutto per
la repressione di una banda criminale che, tra
il 1726 e il 1727, sotto la guida di don Raimondo Sferlazza, chierico di
Grotte, mise a ferro e a fuoco il territorio agrigentino. A Francesco Bonanno
Del Bosco si deve la costruzione a Bagheria, nel 1737, della "Villa Cattolica",
ove intendeva trascorrere i periodi divilleggiatura.
Francesco Bonanno morì il 25 dicembre del 1739 ed i suoi
numerosi titoli e beni furono ereditati dal figlio Giuseppe Bonanno Filangeri.
Per attendere alle sue importanti mansioni, Giuseppe Bonanno Filangeri si
trasferì per molti anni a Napoli e delegò il governo su Canicatti e sugli altri
territori al fratello Emanuele Bonanno Filangeri nominato Procuratore Generale.
La lontananza da Canicattì di Giuseppe ed altri baroni
Bonanno, che preferivano i lussi e la vita mondana di Palermo e Napoli,
determinò la decadenza e quindi il fallimento
della famiglia.
Di conseguenza cominciavano ad emergere a Canicattì nuove
famiglie che ne avrebbero assunto sempre più la guida. Ricordiamo le più
importanti: Corbo, Casucci, Dainotto, Mancuso, Randazzo, Safonte, Testasecca,
Neri, La Torre, Sanchez, Malandrino, Xaxa (Sciascia), La Lomia, Lombardo,
Sammarco, Adamo, Bartoccelli, Gangitano, Caramazza, Bordonaro. Queste ed altre
famiglie costruirono chiese e palazzi e
fecero a gara nel migliorare ed arricchire il paese.
Giuseppe Bonanno Filangeri morì nel 1781; gli succedette il
figlio Francesco Antonio che morì a Napoli nel 1797. Durante il suo principato si verificò, nel 1793,
un'epidemia di vaiolo con alta mortalità causata da una forte carestia che
costrinse le autorità a permettere la panificazione miscelata con farina
d'orzo. Nello stesso anno, per la prima volta, fu istituita a Canicattì la
figura del medico comunale; a ricoprire tale incarico fu chiamato il dottor
Luigi Safonte, con uno stipendio annuo di 12 onze.
I beni ed i titoli di Francesco Antonio passarono quindi al
figlio Giuseppe Bonanno Branciforti, principe di Roccafiorita, che sposò Teresa
Moncada Branciforti, figlia di Giovanni Luigi, principe di Paternò. Il governo
di Giuseppe Bonanno Branciforti coincise con un periodo di ribellioni e veri e
propri movimenti rivoluzionari sviluppatisi in tutta Europa, a seguito della
diffusione dei principi di libertà ed eguaglianza propri della Rivoluzione
Francese.
Anche a Canicattì piccoli borghesi e popolani riuscirono ad
organizzarsi sotto la guida di un barone illuminato, Gaetano Adamo, e, dopo la
sua morte, della moglie baronessa Caterina, assistita dall'avvocato Pasciuta. I
cittadini si rivolsero alla Gran Corte Civile del Tribunale, contestando come
"ingiuste ed angariche" le pretese baronali di esigere balzelli di varia natura
che comprimevano la già grama vita di cittadini.
Nell'aprile del 1804 si giunse ad un accordo tra l'avvocato
Pasciuta, in rappresentanza del popolo, e don Giuseppe Bonanno. Questi rinunziò
ad alcuni diritti feudali: la gabella cosiddetta "della gallina" dovuta
annualmente da ogni capofamiglia, commutabile in tarì uno; il diritto di
monopolio della vendita di orzo, vino e nocciole; il diritto proibitivo sui
trappeti e sui fondaci pubblici; il diritto di esazione di mondelli cinque di
frumento per ogni bue da lavoro; l'esazione di tarì due per ogni capo famiglia
come tassa "della immondezza". Il principe mantenne ancora per poco il diritto
sulle carni macellate mentre perse tutti gli altri su conceria, pelli,
formaggi.
La Chiesa, invece, non solo manteneva ma, in alcuni casi,
tendeva ad estendere i suoi privilegi: il 6 gennaio 1811 il vescovo di
Girgenti, monsignor Saverio Granata, aumentava la "limosina della messa" da
1,10 a 2 tarì. Ma i fedeli che avevano fatto celebrare le messe delle
Quarantore nei giorni precedenti non accettarono l'aumento e le pagarono ancora
a tarì 1,10 ciascuna.
Nonostante i contrasti politici e sociali che maturavano in
quegli anni, Canicattì poté arricchirsi di un altro capolavoro, la chiesa del
Purgatorio, grazie all'iniziativa della famiglia Adamo. Giuseppe Bonanno nel
1798 decise di trasferire in una sezione del Castello le carceri che
insistevano sull'area oggi occupata dalla chiesa del Purgatorio.
Con Giuseppe Bonanno Branciforti ebbero fine a Canicattì
poteri e privilegi baronali: fu l'ultimo principe di Cattolica e l'ultimo
barone della città. Nel 1814 diede in "gabella" tutti i suoi beni di Canicattì
al dottor Filippo Caramazza e, dopo qualche anno, ebbe l'accortezza di vendere,
per il canone annuo irredimibile di 1.700 onze, la Signoria sul feudo e sul
Castello, in perpetua enfiteusi, al barone di Gebbiarossa don Gabriele
Chiaramonte Bordonaro. L'atto fu stipulato a Palermo il 19 giugno del 1819
presso il notaio Salvatore Caldara da donna Teresa Bonanno e Moncada, con
regolare procura da parte del marito principe Giuseppe; la consegna venne
effettuata a Canicattì il 9 gennaio 1820 con atto stipulato presso il notaio
Giuseppe Caramazza.
Giuseppe Bonanno si trasferì quindi a Palermo ove, nel 1820,
fu assassinato da alcuni popolani durante un movimento insurrezionale. I
Bonanno, tuttavia, continuarono a fregiarsi del titolo puramente formale di
"baroni di Canicattì".
La cessione in enfiteusi ai Chiaramonte Bordonaro segnava
per Canicattì, che già superava i 16.000 abitanti, la fine della feudalità e
l'avvento di una nuova epoca di grande fervore e crescita.