Le società di mutuo soccorso avrebbero presto assunto un ruolo sindacale attraverso la costituzione dei Fasci dei Lavoratori, meglio conosciuti come Fasci Siciliani. Il 28 aprile del 1892 fu fondato a Palermo il primo Fascio ed iniziò la fase operaia del movimento; il 20 gennaio del 1893 si ebbe l'eccidio di Caltavuturo che ne aprì la fase contadina. Esponenti di primo piano dei Fasci Siciliani furono Rosario Garibaldi Bosco a Palermo, Nicola Barbato a Piana dei Greci (dal 1941 Piana degli Albanesi), Giuseppe De Felice Giuffrida a Catania, Francesco De Luca e Lorenzo Panepinto nella provincia di Girgenti. In Sicilia, fino al dicembre del 1893, furono fondati ben 177 Fasci, uno dei quali sorse a Canicattì tra l'undici ed il quattordici maggio e riunì ben presto 1450 soci.
Le principali rivendicazioni portate avanti dai Fasci erano la soppressione dei dazi, l'eliminazione del latifondo e il generale miglioramento delle condizioni di vita di contadini, minatori ed operai in genere. Organo del Comitato Centrale dei Fasci dei lavoratori fu Il Siciliano, il cui ultimo numero uscì il 9-10 gennaio 1894, poco prima che il commissario straordinario generale Morra di Lavriano ne ordinasse la soppressione.
I Fasci Siciliani non possono considerarsi un'organizzazione socialista in senso stretto. Furono piuttosto "un movimento di protesta sociale, che accomunò le masse, stanche di decenni di ingiustizie sociali, a quella parte del ceto medio borghese che vide in esso, più che altro, una forma di protesta antigovernativa; era una manifestazione ibrida, intrisa di sicilianismo, di religiosità commista ad elementi paganeggianti, di repubblicanesimo e di fedeltà monarchica". (Gabriella Portalone Gentile, Impegno politico e sociale dei cattolici agrigentini alla fine del sec. XIX, Palermo,1985) Ai Fasci si iscrivevano anche uomini devoti e durante le riunioni non si parlava mai contro la religione, ma si trattavano solo questioni relative al miglioramento delle condizioni di vita dei contadini e degli operai; il crocifisso era quasi sempre presente nelle sedi dei Fasci.
Al Fascio di
Canicattì erano iscritti molti zolfatari che lavoravano nelle miniere della
zona: Palumba, Deliella e Fruscola in territorio di Delia; Bifara di Campobello
di Licata; Muculufa di Butera; Tallarita, Sofia e Grande di Sommatino e Riesi;
Conte Bosco di Ravanusa. Nel vasto territorio compreso tra Santa Caterina Xirbi
(l'attuale Santa Caterina Villarmosa), Porto Empedocle, Canicattì e Licata,
segnato da "montagne brulle, bruciate dal sole" e da una desolata, plastica
solitudine, "grandi cataste di pani di zolfo" erano le prime immagini che nelle
piccole stazioni ferroviarie si presentavano ai viaggiatori (Adolfo Rossi,
L'agitazione in Sicilia - Inchiesta sui Fasci dei lavoratori, Palermo,1988). Il
settore sarebbe ben presto entrato in grave crisi, per la concorrenza degli
americani dotati di tecnologie all'avanguardia, e a poco sarebbe valsa
l'iniziativa governativa di costituire, il 15 luglio 1906, il Consorzio
obbligatorio per l'industria zolfifera siciliana.
La
condizione di vita degli zolfatari non si discostava molto da quella assai
grama dei contadini. Con l'aggiunta di tante malattie professionali, come la
deformità toracica, causata dal peso enorme di zolfo che veniva trasportato a
spalla all'esterno delle miniere dai carusi. Questi rappresentavano, quasi
esclusivamente, la forza lavoro impegnata nelle miniere, ove c'erano anche catastieri,
pesatori, picconieri e scrivani. I carusi venivano quasi sempre venduti
al pirriaturi (il picconiere). Terribile l'istituto del soccorso
morto: il picconiere, con un anticipo di cento, duecento, trecento lire,
comprava dai genitori, compiacenti per necessità, il caruso, prima ancora che
potesse iniziare a lavorare. Quando il caruso cominciava a lavorare riceveva solo
acconti in natura: farina di grano, olio, pane. Era oggetto di proprietà del
picconiere che, se vinto dai debiti, cedeva in cambio il soccorso morto. Un
certo Gaspare Amelia ad Aragona, si tramanda, fu giocato a zecchinetta durante
le feste di Natale: l'indomani cambiò padrone.
La vita
del minatore si svolgeva in perenne incertezza: Oggi ca cc'è lu pani nun si penza;
dumani, si nun c'è, si fa cridenza! La cena del minatore consisteva in una
mangiata di minuzzaglia (resti di vari tipi di pasta comprati a basso prezzo),
condita con poco olio e sale abbondante. Importante era acquietare lo stomaco: Inchi
la panza e inchila di spini. Per i minatori, come per i contadini, la carne era
un lusso che compariva sulla tavola, fugacemente, solo nelle feste comandate.
In provincia di Girgenti, in quegli anni, il consumo medio di carne pro capite
non arrivava ad un chilo in un anno. Unica eccezione Girgenti, ove la media era
di sei chili all'anno: nel capoluogo infatti stazionavano ben seicento tra
sacerdoti secolari e regolari che, avendo fatto voto di rinunziare all'altra
carne, si abbuffavano di quella appena macellata (Francesco Geraci, Una terra
feudale e proletaria: Aragona, Palermo, 2000).
Fortunatamente,
anche per i poveri, capitava di tanto in tanto un cunsulo: Accussì va la vita: mentri
'a pena c'è, 'u mangiari ci voli. Un tredicenne con fame arretrata, durante un cunsulo
dedicato a piangere la dipartita del nonno, 'u papà ranni, chiese speranzoso
alla mamma: "Quannu mori 'a mamma ranni?".
Ai Fasci
Siciliani si iscrissero anche molti contadini, in grande fermento anche se
alcuni proprietari terrieri più ragionevoli da qualche anno avevano
spontaneamente diminuito il canone delle terre e aumentato l'importo della
manodopera.
Con
l'unità d'Italia le cose per la povera gente non erano cambiate di molto. Dal
1860 al 1890 i fitti delle terre erano aumentati fino del 40%, mentre il prezzo
del frumento e degli altri prodotti della terra diminuiva sempre di più. E
tutto ciò in presenza di annate agrarie particolarmente scarse, come quelle del
1891 e 1892, in cui la produzione agricola in Sicilia fu meno della metà degli
anni precedenti. Spesso i contadini, non potendo pagare i debiti, erano
costretti a cedere i loro piccoli fondi agli agrari che avevano, d'altra parte,
acquisito dal demanio dello Stato molti dei terreni provenienti dalla confisca
dei beni ecclesiastici. Un caso emblematico si verificò in quegli anni nel
territorio di Milocca(oggi Milena), allora frazione di Sutera: i consistenti
beni terrieri dei monaci benedettini dell'abbazia di San Martino delle Scale
(Palermo), dopo alcuni passaggi, furono divisi in quote e acquistati da grossi
proprietari.
Talora gli
agrari osavano perfino addossare alle organizzazioni dei lavoratori la
responsabilità di quanto accadeva. Su L'Avvenire di Caltanissetta dell'undici
febbraio 1893 comparve una corrispondenza, proprio da Canicattì, datata 14
dicembre 1892: "I ricchi sono quelli che assorbiscono la piccola proprietà
privata. Ci vuole una gran dose di faccia tosta per potere i nostri avversari
asserire che noi siamo quelli che vogliamo la distruzione della piccola
proprietà privata: questa asserzione per noi vale tanto quanto quella del ladro
che, messo sulla pubblica strada per spogliare l'onesto viandante, dice a
questi: "Gettati a terra, ladro fottuto!"... Nei nostri paesi e nel giro di
pochissimi anni la proprietà fondiaria dei piccoli e medi possidenti trovasi
quasi distrutta...".
Memorabile
una visita a Canicattì dei capi dei Fasci Siciliani: ne abbiamo la descrizione
di Adolfo Rossi, inviato nell'isola per conto de La Tribuna.
Nell'ottobre
del 1893 Garibaldi Bosco ed altri dirigenti partirono da Palermo, alle sei del
mattino, alla volta di Caltanissetta e Girgenti; nella stazione, allora
piccola, di Santa Caterina Xirbiincontrarono il deputato Giuseppe De Felice Giuffrida
proveniente dalla vicina Castrogiovanni (oggi Enna), ove il giorno prima era
stato inaugurato il Fascio con discorsi dell'on. Napoleone Colaianni, dell'on.
De Felice e della figlia di quest'ultimo.
Bosco, De
Felice e gli altri dirigenti del Fascio giunsero a Canicattì intorno a
mezzogiorno, accolti dal dirigente del locale Fascio Gaetano Rao, un possidente
convertitosi al socialismo. Non era prevista alcuna sosta nella cittadina
ed in effetti Rao era stato avvisato per telegrafo solo per scambiare
un veloce saluto, poiché la comitiva era attesa a Campobello di Licata. Ma alla
stazione di Canicattì Rao si presentò con più di mille persone con le bandiere
rosse che costrinsero i dirigenti a fermarsi. Poi si svolse un incontro nella
sede del Fascio, che aveva come unico arredo un Cristo illuminato dalla flebile
luce di un lumino; presenti, tra gli altri, il sindaco della città, avvocato
Vincenzo Falcone, e un giovane ricco proprietario terriero dalle idee progressiste,
Gaetano Bartoccelli. Alle cinque del pomeriggio i dirigenti, costretti a
cambiare itinerario, raggiunsero in carrozza Delia e poi Sommatino.
La costituzione del Fascio a Canicattì era stata preceduta dalla elezione del primo sindaco di idee socialiste, anche se non militante, e cioè l'avvocato Vincenzo Falcone. Il Consiglio Comunale lo aveva eletto nella seduta del 25 settembre 1892. Al Fascio di Canicattì aderirono più di millequattrocento soci: soprattutto contadini, piccoli proprietari terrieri, artigiani e minatori. Tra questi ultimi da ricordare Angelo Ficarra, padre dell'omonimo vescovo di Patti, che, da modesto muratore e capomastro, prestava nelle miniere di zolfo la propria opera, consistente prevalentemente nella realizzazione di muretti di sostegno e pilastri. Ed uno zio paterno del vescovo Angelo Ficarra, di nome Giuseppe, morì in miniera a seguito di un incidente sul lavoro.
Il Fascio di Canicattì ebbe come principale dirigente l'avvocato Gaetano Rao, che fu anche assessore nella giunta Falcone fino al gennaio 1893. Di famiglia benestante e componente della Congregazione della Carità, si dedicò con entusiasmo alla difesa dei più deboli, attuando le idealità proprie del socialismo riformista. Il Fascio di Canicattì lo inviò come suo delegato al congresso socialista regionale di Palermo, in segno di adesione al nuovo partito. Tra gli organizzatori del Fascio di Canicattì anche l'avvocato Giovanni Guarino Amella, che avrebbe assunto ruoli di grande prestigio, e non solo a livello locale, nei decenni successivi.
La
stagione dei Fasci Siciliani era però destinata a concludersi ben presto. A
seguito delle dimostrazioni e dei tumulti del 1893, il Consiglio dei Ministri,
presieduto da Francesco Crispi, il 23 dicembre autorizzò la proclamazione dello
stato d'assedio. Con decreto del re Umberto I, il 3 gennaio 1894 Roberto Morra
di Lavriano e della Montà (Torino 1830 - Roma 1917), tenente generale e
comandante del XII Corpo d'Armata e reggente la Prefettura di Palermo, fu
nominato Commissario Straordinario con pieni poteri. In pari data il generale
proclamò in Sicilia lo stato d'assedio al fine di reprimere il movimento dei
Fasci. Il movimento fu messo fuori legge e ne fu vietata la ricostituzione.
Portato a termine il suo incarico, il generale, in data 13 agosto 1894,
consegnò al Governo la sua Relazione sull'andamento dello stato d'assedio in
Sicilia durante l'anno 1894. Dal documento appaiono con estrema chiarezza le
opinioni del generale: "I fasci ebbero appunto in sul principio apparentemente
lo scopo di resistere legalmente ai capitalisti e proprietari, a mezzo
della mutualità e della cooperazione, per ottenere più equi contratti agrari e
di salario... Ben presto però le cose mutarono, un gruppo di sovvertitori intuì
quali vantaggi avrebbe potuto ritrarre da un'organizzazione siffatta e così
potente, e professando per lo più in mala fede principii socialistici, cominciò
ad adescare le masse, già preparate da una lunga sovrapposizione di odii, di
rancori, d'ingiustizie, con miraggi d'inattuabili utopie".
A
Canicattì fu arrestato Gaetano Rao; liberato dopo mesi di carcere e nuovamente
ricercato, si diede alla latitanza. Anche Guarino Amella si diede alla
latitanza. L'otto febbraio 1894 si concludeva l'esperienza della giunta Falcone.
La
creazione della "Società di mutuo soccorso Figli del lavoro" e soprattutto la
costituzione del Fascio, anche se nessuna delle due organizzazioni si
contrapponeva in alcun modo alla Chiesa, misero egualmente in allarme gli
ambienti clericali. Come azione di contrasto fu subito costituita una società
di mutuo soccorso dal nome di per sé emblematico, "Immacolata", cui si
iscrissero non solo contadini e artigiani, ma anche proprietari terrieri,
esponenti della piccola nobiltà, maestri, professionisti e perfino preti. La Chiesa
era consapevole di non aver difeso adeguatamente i deboli, anzi di essere
stata, o almeno apparsa, schierata con i feudatari prima ed i grossi
proprietari terrieri poi.
L'attacco
più forte ai Fasci fu portato da monsignor Giovanni Guttadauro, secondo vescovo
della diocesi di Caltanissetta (1859-1896), nel cui territorio si trovavano
quasi tutte le miniere e molti terreni ove lavoravano tanti canicattinesi. La
diocesi nissena era stata eretta il 25 maggio del 1844 con territorio sottratto
in gran parte alla diocesi di Girgenti e quindi contiguo al territorio di
Canicattì.
La voce
del vescovo Guttadauro tuonò contro i socialisti, in una apposita
lettera pastorale del 12 ottobre 1893, proprio nel periodo di massimo sviluppo
dei Fasci Siciliani. Nel documento il presule, nel prendere atto delle misere
condizioni in cui viveva il proletariato, sfruttato dai proprietari terrieri e
dai gabelloti, esortava i parroci ad intervenire per ristabilire i diritti dei
lavoratori, ricomporre "le recenti vertenze cagionate in gran parte
dall'ingiustizia di talune condizioni apposte nei contratti delle mezzadrie,
colonie parziarie, inquilinaggi" ed abolire l'usura che impediva qualsiasi
crescita delle piccole aziende agricole. Della situazione, aggiungeva il
vescovo, profittano i "mestatori socialisti" che "eccitano le masse a
sollevarsi contro coloro che dovrebbero conoscere le regole della giustizia ed
osservarle secondo lo spirito della carità cristiana". (Gabriella Portalone
Gentile, Impegno politico e sociale dei cattolici agrigentini alla fine del
sec. XIX, Palermo, 1985).
Dopo un
breve periodo di apparente stasi, seguita alla repressione dei Fasci, i
socialisti canicattinesi cominciarono a riorganizzarsi. Nel 1897 venne a
Canicattì l'ex capo del Fascio di Piana dei Greci, il medico Nicola Barbato,
che tenne un affollato comizio nell'atrio delle scuole elementari di San
Domenico. Lo presentò il diciannovenne Domenico Cigna, che ben presto sarebbe
diventato in città il referente dei socialisti intransigenti, in contrapposizione
ai socialisti riformisti guidati da Gaetano Rao. A quest'ultimo gruppo
appartenne anche l'avvocato Francesco Macaluso. A livello provinciale
prevalevano le posizioni intransigenti, sostenute soprattutto dal maestro
elementare di Santo Stefano Quisquina Lorenzo Panepinto, che sarebbe stato
ucciso in un agguato il 16 maggio del 1911.